Chiedere al 2023 una società più giusta è troppo?

Espressioni come società giusta sembrano quasi bandite dal lessico contemporaneo. Eppure, non per una mera corsa al ribasso, basterebbe parlare di società decente. Per quanto, nel passare in rassegna alcuni dati contenuti nella Relazione sullo stato sanitario del Paese 2017-2021, redatta dal ministero della Salute, forse potremmo commentare di essere già oltre i livelli di guardia.

La situazione è allarmante. Se a livello meridionale uno solo su dieci è riuscito a curarsi, vuol dire che la nostra è una società condannata all’“inappropriatezza dei servizi”. Ma, considerati gli “squilibri sociali e territoriali”, non è solamente l’accesso all’assistenza sanitaria a evocare l’inevitabile declino e desolanti regressioni. Tanto dovrebbe bastare a reagire e darsi coraggio: il coraggio di fare scandalo, di non avere paura, di tornare a parlare senza chissà quali giri di parole d’ingiustizia, di una società che non conosce equità, che ammette le crescenti diseguaglianze sociali, quasi fossero dati di natura ormai immodificabili, non governabili. Una rassegnazione inaccettabile.

E’ infatti solo un’ingiustizia tra le altre la mancata equità sanitaria. Va coniugata alla drammatica mancanza di lavoro, nonché a un’istruzione degna di questo nome, insieme favoriscono il lungo inverno del calo demografico. Bisogna aggiungere, poi, l’emigrazione. Non quella sempre più rara della libera scelta, piuttosto quella che sta desertificando per costrizione tutto il Mezzogiorno. Un’emorragia continua che, unitamente al crollo delle natalità, deve fare i conti con il progressivo invecchiamento delle nostre comunità.

Devastanti risultano le ripercussioni. Maggiore risulta la riduzione della popolazione, più debole diventa la capacità di contrastare un progressivo impoverimento. Se l’emorragia continua, in assenza di modelli in grado di garantire servizi adeguati alla popolazione e politiche che possano invertire il trend di decrescita demografica - leggi lavoro - il divario diventerà sempre più profondo, crescerà a dismisura la distanza dal resto del Paese. Insomma, la concentrazione di pesanti svantaggi sociali richiede la declinazione di un altro termine non meno foriero di reazioni scandalizzate e, purtroppo, a sua volta quasi del tutto cancellato: redistribuzione.

La redistribuzione e la regolazione pubblica delle risorse e delle opportunità devono tornare a centrare l’obiettivo costituzionale di garantire che sull’intero territorio nazionale tutti siano egualmente cittadini. Non sembri ingenuo, in altri tempi è già accaduto, basterebbe prendere a esempio la portata sociale di svolte epocali come la Riforma agraria. La storia dice che non è impossibile. Ma per riuscire servono politiche redistributive coraggiose e anche di lunga durata, che siano non solo in grado di rispondere ai bisogni, soprattutto dove questi sono più acuti, ma anche di tratteggiare il profilo del Paese che vogliamo, quello del futuro, il nostro, non diviso, unito.

Il discorso vale in particolare per una comunità incessantemente al bivio, come Matera. Città in cui si fa strada un impellente bisogno di redistribuzione, di politiche e di un’azione pubblica che svolga un ruolo non subalterno, d’interventi che siano a misura di territorio, in grado d’individuare le priorità su cui agire per un cambiamento che consideri i bisogni, ma anche i desideri degli abitanti. Non è un errore di battitura, è proprio scritto “desideri”, per la ragione che non può prevalere solo l’improvvisazione o, peggio ancora, la rassegnazione di un inverno senza un domani.

Pasquale Doria
Consigliere comunale di Matera Civica
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